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Nota a CTR Piemonte sent. n. 858 del 5.7.16
Il Fisco non può sindacare la congruità (e pertanto l’importo) dei costi sostenuti da un’impresa per pubblicità o sponsorizzazioni ad associazioni sportive dilettantistiche, in assenza di altri elementi che ne giustifichino l’indeducibilità.
È quanto emerge dalla decisione della CTR Piemonte n. 858 del 5.7.16 che affronta un tema piuttosto attuale nel mondo del no profit, ossia quello delle sponsorizzazioni (e della loro deducibilità).
Senza entrare nel tema, affine e altrettanto vivo in giurisprudenza, della qualificazione delle sponsorizzazioni come costi di pubblicità o propaganda o, piuttosto, come spese di rappresentanza (con i conseguenti limiti di deducibilità che caratterizzano quest’ultime ai sensi dell’art. 108 co. 2 TUIR), questa sentenza prende posizione sul potere del Fisco di sindacare il merito delle iniziative economiche del contribuente.
Nei fatti, a una srl erano stati contestati da parte dell’Agenzia delle Entrate gli elevati importi spesi per sponsorizzazioni e pubblicità versati a delle associazioni sportive dilettantistiche.
Tra i rilievi, l’Ufficio sosteneva l’indeducibilità del costo sull’assunto per cui la società verificata non aveva provato alcun diretto ritorno commerciale dalla sponsorizzazione stessa e, su queste basi, emetteva avvisi di accertamenti per IRES e IVA.
Il contribuente (srl) ricorreva alla CTP di Novara eccependo che l’Agenzia Delle Entrate non era legittimata a sindacare le scelte imprenditoriali, quali appunto erano da considerarsi la congruità degli importi destinati a sponsorizzazioni e pubblicità.
La CTP accoglieva il ricorso del contribuente, ricordando che la presunzione ex art. 90 co. 8 l. 289/02 (per la quale entro il limite di € 200.000 gli esborsi per sponsorizzazioni a favore delle ASD debbano essere sempre considerati integralmente deducibili) è assoluta e che, sotto quel valore (com’era nel caso concreto) non deve ammettersi alcun sindacato di congruità/inerenza.
In sede di gravame, la CTR Piemonte ha confermato il primo grado ribadendo che, laddove il costo della sponsorizzazione sia al di sotto di € 200.000, sussistono ex lege i presupposti di inerenza: in altre parole, nel caso dell’art. 90 co. 8 l. 289/02 è lo stesso Legislatore ad aver effettuato un giudizio aprioristico d’inerenza al di sotto della predetta soglia, pertanto nulla può eccepire il Fisco su questo versante (cfr., ex multis, Cass. 7202/17, 8981/17, 5720/16).
Del resto, questa interpretazione ben si concilia con quella giurisprudenza di legittimità che “sgancia” l’inerenza del costo della sponsorizzazione dalla presenza di un diretto ritorno commerciale, ritenendo invece sufficiente anche soltanto un’utilità indiretta e mediata all’attività di impresa (cfr. Cass. 6548/12, 24065/11).
La deducibilità (e, a priori, l’inerenza) del costo, infatti, secondo questo orientamento, non postula che esso sia stato sostenuto per realizzare una specifica componente attiva del reddito, ma richiede soltanto che esso sia correlato in senso ampio all’impresa, ovvero che tale onere sia “stato sostenuto al fine di svolgere un’attività potenzialmente idonea a produrre utili” (Cfr., ex multis, Cass. 16836/07).
Con grande lucidità, certa giurisprudenza ha in passato ricordato che “l’imprenditore è libero di concludere buoni o cattivi affari”, pertanto anche investire in una pubblicità senza ricavarne alcun profitto (Cass. 6337/02).
La pubblicità è una scelta imprenditoriale soggetta a rischi per cui non si può avere alcuna certezza sui maggiori ricavi conseguibili, tanto più che il riscontro sui risultati raggiunti è possibile solo a posteriori, quando cioè l’esercizio si è già concluso (cfr. CTR – Sez. Brescia 3228/16, CTP Lucca 160/12).
L’inerenza e la congruità di tali spese all’esercizio dell’attività commerciale, è sancita quindi dalla legge; di conseguenza nei limiti e alle condizioni dalla stessa stabiliti si considerano sempre deducibili.
La sentenza in commento ribadisce un concetto già emerso da tempo in dottrina: “quello della congruità o se si preferisce dell’economicità delle spese sostenute dall’impresa rappresenta senz’altro uno dei punti centrali del tema dell’inerenza. L’interferenza da parte degli uffici periferici dell’amministrazione finanziaria nelle scelte gestionali potrebbe condizionare l’imprenditore nelle sue politiche aziendali con negativi riflessi sui risultati economici” (PROCOPIO, L’inerenza nel sistema delle imposte sui redditi, Milano, 2009).
L’orientamento rappresentato dalla sentenza commentata e dalla giurisprudenza citata deve essere accolto con favore dal momento che, ad avviso di chi scrive, costituisce un giusto temperamento tra l’esigenza erariale di reprimere fenomeni evasivi con la altrettanto garantita e tutelata libertà di iniziativa economica dell’imprenditore, contenuta nell’art. 41 Cost..
Il potere accertativo, e ancor più quello impositivo dell’Amministrazione Finanziaria, non possono spingersi, per ragioni di gettito, a entrare nel merito delle scelte imprenditoriali senza fornire, previamente e normativamente, dei parametri oggettivi. Laddove poi tali parametri oggettivi dovessero sussistere (è il caso dell’art. 90 co. 8 l. 289/02) il sindacato del Fisco non dovrebbe, appunto, trovare eccessiva libertà di interpretazione.