RINUNCIA ALL’EREDITÀ: ATTENZIONE ALL’INVENTARIO!
Sappiamo che il diritto di accettare l’eredità si prescrive in 10 anni dall’apertura della successione.
Esistono però casi in cui il chiamato deve prendere una decisione in un lasso di tempo ben inferiore.
Un’ipotesi è quella prevista all’art. 485 cod. civ. in base al quale “il chiamato all’eredità, quando a qualsiasi titolo è nel possesso di beni ereditari, deve fare l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione (…). Trascorso tale termine senza che l’inventario sia stato compiuto, il chiamato all’eredità è considerato erede puro e semplice. Compiuto l’inventario, il chiamato che non abbia ancora fatto la dichiarazione a norma dell’art. 484 ha un termine di quaranta giorni da quello del compimento dell’inventario medesimo per deliberare se accetta o rinunzia all’eredità. Trascorso questo termine senza che abbia deliberato, è considerato erede puro e semplice“.
La norma in questione, a nostro avviso (ma non solo), si presta pericolosamente a differenti interpretazioni e lascia aperti numerosi problemi.
Innanzitutto va chiarito che cosa si intende per “chiamato nel possesso di beni dell’eredità”.
A riguardo, basti ricordare che:
a) è sufficiente il possesso di anche un solo bene ereditario (una somma di denaro, un quadro, un immobile) affinché ci si debba considerare chiamati “possessori” e dunque soggiacere a questa norma (cfr., ex multis, Cass. n. 4707/94);
b) il termine “possesso” qui deve essere inteso in senso atecnico, dovendosi dunque considerare tale qualsiasi relazione materiale (anche per un solo giorno!) con uno o più beni ereditari (cfr., ex multis, Cass. n. 7076/95).
Questi due chiarimenti possono servire a comprendere come il chiamato all’eredità che versi in questa condizione sia destinatario di un onere stringente da esercitare entro breve tempo dal decesso del proprio caro, pena il trovarsi erede puro e semplice (con la nota conseguente “confusione dei patrimoni”).
In secondo luogo, occorre aver riguardo all’inciso “deve fare l’inventario entro tre mesi”: trascorso detto termine, il chiamato è considerato erede puro e semplice, così come è considerato tale se non delibera entro i successivi quaranta giorni se accettare o rinunciare.
La ratio della norma che impone al chiamato possessore la redazione dell’inventario, occorre sottolinearlo, consiste nella necessità che i beni ereditari non possano essere sottratti o nascosti da chi, statisticamente, può più agevolmente farlo.
Deve dunque rinvenirsi, in questa disposizione, un’esigenza di tutela degli altri chiamati all’eredità nonché dei creditori dell’asse ereditario.
Sennonché, leggendo la norma in senso letterale, sembra profilarsi quello che può definirsi un vero monstrum giuridico.
Ci si riferisce al fatto per cui l’art. 485, co. 2 cod. civ., dispone che “trascorso tale termine senza che l’inventario sia stato compiuto, il chiamato all’eredità è considerato erede puro e semplice“.
Ci si deve chiedere se il mancato compimento dell’inventario precluda soltanto di accettare con beneficio d’inventario o se, in radice, precluda anche la possibilità di rinunciare tout court all’eredità.
Una lettura improntata al buon senso porterebbe a sostenere che colui che voglia accettare con beneficio d’inventario (ma comunque accettare!) debba fare l’inventario entro tre mesi, altrimenti sarà considerato erede puro e semplice.
A nulla rilevando l’inventario qualora egli voglia piuttosto rinunciare all’eredità.
Tuttavia, non può negarsi, che una lettura letterale della norma porterebbe alla seconda soluzione.
Il problema non è meramente speculativo poiché, se la mancata redazione di un inventario potesse inficiare la validità di una rinuncia all’eredità, è facile immaginare come i creditori del de cuius (ad es. il Fisco) potranno fare di tutto per impugnare le rinunce e aggredire i discendenti considerandoli eredi.
Va detto, invero, che la prima interpretazione (rinuncia senza onere d’inventario) sembra essere quella accolta dalla prassi notarile e dalla dottrina.
Tuttavia è la lettura letterale ad essere accolta dalla giurisprudenza di Cassazione più recente (cfr., su tutte, Cass. n. 4845/03 e n. 7076/95 e la recentissima n. 5862/2014).
Essa infatti ritiene che il chiamato possessore che non compia l’inventario nei termini di cui all’art. 485 cod. civ. perda (anche) il diritto di rinunciare all’eredità e divenga (quasi a titolo sanzionatorio) erede puro e semplice.
Le ultime sentenze che si sono pronunciate in senso contrario (e in linea con il notariato e la dottrina) risulterebbero essere molto datate (cfr. Cass. n. 1359/58).
Nella prassi notarile l’inventario precedentemente alla rinuncia raramente viene consigliato al chiamato possessore. Questo modus operandi, a nostro avviso, non può condividersi.
Se giuridicamente (ma, ci si permetta, “astrattamente”) la ricostruzione dogmatica della rinuncia all’eredità porterebbe a concludere per l’irrilevanza di un previo inventario, il fatto che la Cassazione, nelle sue pronunce più recenti si sia espressa in senso “rigorista” e letterale, non può esimere gli operatori del diritto dal consigliare al cliente la soluzione più “prudente”.
E tuttavia ciò non sembra accadere.
Ma per comprenderne le conseguenze si immagini questo esempio.
Un chiamato che è nel possesso di beni ereditari si reca da un professionista (notaio) o in cancelleria ed espone la sua volontà di rinunciare. A questo punto il professionista (notaio) o il cancelliere del Tribunale potrebbe (accogliendo la dottrina dominante e non condividendo l’orientamento più recente della Cassazione) raccogliere la rinuncia tout court.
Ipotizziamo che, a distanza di alcuni anni, l’Agente della Riscossione notifichi al chiamato rinunciante una cartella di pagamento relativa a debiti erariali del de cuius (che magari sono stati proprio la ragione per cui questi rinunciò all’eredità): il chiamato “serenamente” (se così si può dire) opporrà di aver rinunciato all’eredità e l’Ente impositore opporrà, a sua volta, che la rinuncia è stata fatta senza il previo inventario, così come disposto dall’art. 485 cod. civ. (tesi “rigorista”).
Dal momento che spetta al chiamato dimostrare l’avvenuta redazione nei termini dell’inventario, questi non potrà assolvere tale onere in quanto nessuno gli aveva, a suo tempo, suggerito di farlo.
Ipotizziamo infine, che la Commissione Tributaria adita nel presente caso accolga, per la decisione della controversia, l’ultimo orientamento della Cassazione (anno 2014): la rinuncia verrà considerata inefficace e inopponibile al creditore, il chiamato rinunciante sarà considerato erede puro e semplice e il Fisco potrà aggredire anche i suoi beni personali a soddisfacimento del proprio credito.
Tutto questo perché il professionista (notaio) o il cancelliere cui egli si era rivolto anni prima non hanno ritenuto di seguire l’atteggiamento rigorista.
A nostro avviso, in presenza di questioni “dubbie” come la presente, il professionista (se non il notaio, sicuramente l’avvocato in qualità di consulente) adito dovrebbe consigliare la condotta più rigorista (anche se più onerosa) in ottemperanza a una visione prospettica del problema, senza limitarsi ad accogliere pianamente le tesi della dottrina prevalente, tesi che, seppur scientificamente degne di ogni attenzione e riflessione, allo stato presente potrebbero non avere ancora impatto nelle decisioni dell’Autorità Giudiziaria.
Per esperienza personale, non tutti (si direbbe “veramente pochi”) gli operatori del diritto sembrano dare sufficiente credito a questo orientamento rigorista della Cassazione in tema di rinuncia all’eredità e previo inventario: a monte, forse, si potrebbe riflettere se essi abbiano l’obbligo di consigliare al privato la soluzione più “prudente”.
Un dato è certo: questo obbligo incombe senza dubbio in capo all’avvocato nella sua attività di consulenza.
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